lunedì 7 settembre 2009
Alceste Catella
Vescovo di Casale Monferrato
“Vieni e vedrai” (Gv 1,46)
La passione per il compito educativo
Messaggio alla Diocesi per l’anno pastorale 2009 – 2010
Vescovo di Casale Monferrato
“Vieni e vedrai” (Gv 1,46)
La passione per il compito educativo
Messaggio alla Diocesi per l’anno pastorale 2009 – 2010
Misericordias Domini cantabo
Carissimi,
“Vieni e vedrai” è l’invito che l’apostolo Filippo rivolge a Natanaele che è scettico nei riguardi di quel Gesù di Nazaret che gli viene annunciato. Filippo da buon educatore insiste ed invece di proporre dottrine, propone un’esperienza da fare insieme. E’ l’invito che con semplicità e forza intendiamo rivolgere ai fratelli e alle sorelle “in ricerca”: perché proprio da questo invito s’avvia l’incontro e la proposta educativa. Vieni tra noi e vedrai una comunione d’amore fondata sulla fede in Gesù. Vieni tra noi e vedrai come si ascolta la Parola che illumina la storia; come si celebra l’Eucaristia, come si prega lodando Dio per i suoi doni; come ci si ama aiutandosi e perdonandosi…
Firmo questa lettera nella data del 7 settembre: ad un anno dall’inizio del mio servizio pastorale all’amata Diocesi di Casale Monferrato. Sento urgente il bisogno del cuore di esprimere a tutti: sacerdoti, diaconi, assistenti pastorali; a tutti voi sorelle e fratelli che costituite il popolo santo di Dio il mio affetto e la mia gratitudine. E’ stato per me un anno intenso d’incontri, di ascolto, di conoscenza, di riflessioni comunitarie… Ho avuto la gioia di svolgere la Visita Pastorale nella Vicaria di S. Salvatore, sono stato in sessantacinque comunità parrocchiali per i più diversi motivi: il sacramento della Cresima, festività patronali, momenti di preghiera… Ho trovato dovunque accoglienza cordiale e fraterna e per questo dico il mio grazie sincero.
Il tema sul quale intendo intrattenermi in riflessione con tutti voi è di grande importanza: si tratta di quella che viene oggi definita l’emergenza educativa e che io preferisco chiamare la sfida educativa o -ancor meglio- la passione per il compito educativo.
In altri termini, “perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e trasmessa da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona”.
Occorre, allora, interrogarci con franchezza: in che misura sappiamo comunicare, trasmettere, educare? In che misura sappiamo annunciare con vigore e gioia l’evento della morte e risurrezione di Cristo, cuore del cristianesimo?
Si tratta di compiere una vera e propria “conversione pastorale”. Occorre fare la scelta di centrare l’azione pastorale attorno alla persona, alle sue concrete e quotidiane esperienze. Si tratta, non tanto di coordinare e organizzare le diverse attività; si tratta di partire e di arrivare alla persona, all’unità della persona e della sua coscienza. «Una delle frontiere più delicate per la Chiesa di oggi consiste nella grande sfida di comunicare il Vangelo alle nuove generazioni» (cfr C.E.I., Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 57 § 4).
Ciò che sperimentano i genitori nei confronti dei figli, lo sperimenta la Chiesa nei confronti delle nuove generazioni. La grande sfida è quella di trovare i sentieri più opportuni per comunicare con loro e per farlo in maniera persuasiva, soprattutto trattandosi della comunicazione del Vangelo.
Non sono poche le famiglie cristiane e le parrocchie che avvertono e soffrono in maniera lancinante questo problema.
Eppure, la nuova generazione resta, senza alternative, la nostra risorsa per il futuro. Perciò, più che lamenti, occorre senso di responsabilità. L’impegno “missionario”, l’impegno del “trasmettere e comunicare”, l’impegno dell’”educare”…, deve diventare sempre di più non un argomento, un impegno tra altri; deve diventare il compito che qualifica la nostra pastorale ordinaria.
Una premessa
Desidero richiamare un tratto del mio Messaggio inviato alla Diocesi all’inizio dello scorso anno pastorale, anno che abbiamo dedicato alla Parola:
«Forse ci ricordiamo di una famosa definizione dell’uomo quale “essere razionale”; è giusta; eppure credo che -fondamentalmente- essa voglia dire: “essere che ha la parola” e dunque: essere fatto per ascoltare e rispondere; essere fatto per instaurare un dialogo, per vivere un rapporto; essere che raggiunge la sua pienezza e maturità quando è capace di dialogo; per questa via si è davvero persone: donne e uomini davvero “riusciti”; per questa via si è davvero “credenti”, cioè capaci di ascoltare Dio che parla, di accoglierne la proposta, di metterla in pratica nella vita quotidiana; per questa via si costruisce la società e la chiesa. In buona sintesi, si tratta di compiere un’umile scelta “culturale”: quella del “primato del dono” invece del primato del piacere o del tornaconto… L’inaudita novità del cristianesimo postula l’esigenza di mettersi nell’attitudine di “accettare il dono”. […]. Ascoltare è accogliere; è far spazio all’altro, è stimarlo, è valorizzarlo, è corresponsabilizzarlo…
Accogliere è mettersi al servizio dell’altro…Accogliere è togliere da noi, dalle nostre comunità ogni atteggiamento che possa favorire disprezzo, rifiuto, chiusura preconcetta…»
Ebbene, mi pare che l’azione dell’educare s’innesti esattamente in questo punto: educare è instaurare un dialogo inteso non già a trasmettere competenze o a fare addestramento… Si tratta di realizzare l’attenzione del cuore. Il rapporto educativo è “dialogo”, anzi è intreccio vitale del destino di due persone.
Un’icona biblica
Porremo davanti alla nostra mente ed al nostro cuore il rapporto tra il Signore Gesù e Simone Pietro. E’ un rapporto educativo: il Maestro prende Simone com’è e dove è, ed è capace di far emergere l’entusiasmo generoso di questo discepolo e lo conduce ad affrontare -passo dopo passo- tutte le esigenze del Regno, lo conduce alla “vera coscienza di se stesso”. Il rapporto tra Gesù e Simone è a volte sereno e bello, a volte conflittuale e drammatico; conosce attestazioni di fedeltà e di gioia, ma anche di tradimento e d’incertezza. Alla fine questo rapporto educativo è vincente e Simone diventa veramente la Roccia su cui è edificata la Chiesa del Signore.
«Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci…”. Gli disse di nuovo per la seconda volta: “Simone figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola…”. Gli disse per la terza volta: “Simone figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: mi vuoi bene?, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù…, “tu, segui Me”» (Gv 21, 15-19)
1. Il “mistero” della Chiesa, ovvero: “chi è” la Chiesa?
Cinquant’anni or sono, il Beato Papa Giovanni XXIII annunciava il Concilio Ecumenico Vaticano II. Tra i doni più preziosi che dall’evento conciliare abbiamo ricevuto, vi è la Costituzione Lumen Gentium che individua le fondamentali dimensioni della Chiesa nella comunione, nella ministerialità, nella missionarietà.
Ritengo opportuno sostare un poco a riflettere su questa realtà umana e divina insieme che è la Chiesa; vogliamo fare nostra la domanda cruciale che il Servo di Dio Paolo VI esprimeva iniziando la seconda Sessione del Concilio: «Chiesa, che cosa dici di te stessa?». A partire poi dalla risposta a questo interrogativo il Papa Paolo VI individuava alcuni impegni: il rinnovamento della Chiesa, la ricomposizione dell’unità fra tutti i cristiani, il colloquio della Chiesa con il mondo contemporaneo…: comunione – ministerialità – missionarietà, ecco le “dimensioni” della Chiesa, ecco la sua “vocazione”.
Vogliamo anche riascoltare il puntuale magistero di Mons. Carlo Cavalla così come si è “depositato” nei testi del XXVII Sinodo della Chiesa casalese.
«Anche in mezzo a difficoltà e prove di ogni genere vi è la certezza, per noi credenti, che la storia della salvezza continua e si dipana ogni giorno dalle mani di Dio che “si serve delle strutture e delle impalcature di questo mondo che passa, per realizzare il suo progetto di salvezza” (S. Agostino)» (Orientamenti e Norme, 2).
E proseguendo, il Sinodo afferma l’inderogabile esigenza di realizzare una profonda comunione, dato che solo per questa strada possono venire ad esistere la ministerialità (vissuta da tutto il popolo di Dio) e la missionarietà.
«Soltanto così le parrocchie, le comunità religiose e le varie aggregazioni ecclesiali potranno offrire una testimonianza credibile, convincente ed attraente di “famiglia di Dio”. La comunione ecclesiale è dono del Signore. E’ ricchezza che dovremo costantemente ricercare nel concreto di ogni scelta ed atteggiamento, attraverso la piena disponibilità a pagarne il prezzo in moneta di rinuncia, di sacrificio personale, di dono di sé agli altri» (Orientamenti e Norme, 4).
Consentitemi, a questo punto, di svolgere una rapida catechesi sul “mistero” della Chiesa.
- Invece di privilegiare un’immagine, una categoria, un elemento per delineare la realtà della Chiesa, cerchiamo di cogliere la Chiesa nel suo momento nativo, vale a dire nel suo momento di derivazione da Gesù Cristo; scopriremo che la Chiesa è la comunione che nasce sull’annuncio del Signore Gesù, il Crocifisso Risorto.
- Partiamo da un interrogativo: “Dove accade la Chiesa?” Dove essa si fa avvenimento significativo per l’uomo? Per l’attuale congiuntura culturale? E potremmo rispondere così: “La Chiesa accade là e quando qualcuno annuncia a qualcun altro che Cristo è risorto”.
- Lasciamoci istruire dal prologo della prima lettera di Giovanni. Esso è molto semplice. Ci presenta la Chiesa non come una “cosa” davanti al credente, ma come un evento che genera e alimenta la vita del discepolo. Giovanni fotografa la Chiesa nel suo momento sorgivo, e la vede come il “grembo” in cui nasce l’esperienza cristiana.
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio sua Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1, 1-4).
In questo testo vediamo come tre momenti.
- Il primo corrisponde al primo versetto. Giovanni dice: abbiamo visto, contemplato, ascoltato, toccato con mano il mistero di Dio che si rende presente nella carne di Gesù e che ci fa suoi discepoli…, «ossia il Verbo della vita», la Parola della vita.
Insomma, che cosa hanno visto, ascoltato, contemplato, toccato gli apostoli? Che cosa ci annunciano? Che cosa abbiamo contemplato sin qui? Un uomo, una persona che parla le nostre parole, che condivide i nostri sentimenti, che si avvicina a noi, che fascia le nostre ferite, che guarisce il nostro cuore, che accoglie su di sé la pecorella smarrita, che mangia con i peccatori…E proprio in Lui, proprio in quella sua vicenda umana, in quella sua storia, noi abbiamo trovato la Parola della vita: la Parola che dà la vita.
Il fondamento della Chiesa, dunque, non può essere altro che l’esperienza viva di Gesù di Nazaret e in quest’esperienza non si tratta solo di cose che riguardano l’anima oppure la dottrina, il sapere…; si tratta di qualcosa in cui è implicato tutto quanto l’essere umano: udito, vista, tatto, sguardo. La Chiesa è là dove la totalità del nostro io, della nostra persona incontra e fa esperienza di Gesù di Nazaret.
- Il secondo momento ci è descritto dal terzo versetto: «Quello che abbiamo visto e udito…noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi». L’apostolo, la comunità (si noti che l’apostolo non usa il singolare, ma si colloca dentro e insieme alla comunità), la comunione dei discepoli (= la Chiesa) esiste per annunciare quella sua viva esperienza di Gesù. Insomma, la Chiesa non si ripiega su se stessa, sul suo “fare esperienza di Gesù”, la Chiesa non mette in mostra se stessa, bensì rimanda oltre: essere nella Chiesa, ascoltare l’apostolo è incontrare Lui, il Signore… Così nasce la Chiesa: nasce come comunione attorno all’annuncio dell’apostolo e della comunità apostolica. Non semplicemente perché abitiamo sullo stesso territorio e ci troviamo nel medesimo luogo. Non perché semplicemente celebriamo alcuni gesti tutte le domeniche. Non perché siamo anagraficamente iscritti alla comunità cristiana dei battezzati. Noi siamo nella Chiesa perché realizziamo ogni giorno la comunione attorno l’annuncio apostolico.
La Chiesa è là dove accogliamo l’annuncio dell’esperienza del Signore che l’apostolo e la comunità apostolica hanno fatto e hanno trasmesso.
Il modo con cui noi siamo venuti alla fede dice anche che cosa è la Chiesa o, meglio, chi è la Chiesa. Non siamo venuti alla fede perché ci è stato trasmesso un libro o una tabella di dottrine e di norme, ma perché ci è stata trasmessa la Parola che dà la vita da una comunità apostolica che è fatta dalle persone più semplici: dalla mamma e dal papà che ci hanno insegnato a balbettare per la prima volta Dio con il nome di Padre, a chiamare Gesù quando ci portavano sulle braccia; dalla comunità, dal sacerdote, dal catechista che ci hanno introdotto nei sacramenti dell’iniziazione cristiana; dalle persone significative che ci hanno accompagnato fino ai momenti della vita adulta, ai momenti difficili o decisivi della nostra esistenza… Nella Chiesa nessuno è il “primo”, nella Chiesa nessuno diviene ed è cristiano “da solo”…
Possiamo dire che il secondo momento della Chiesa ne coglie il tratto della concreta visibilità, del suo essere nel tempo e nello spazio…: la Chiesa “si raduna attorno ad un annuncio”.
- Ed ecco il terzo momento; è introdotto dall’espressione seguente: “La nostra comunione (comunione generata da un annuncio trasmesso e accolto) è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. Dunque, la nostra comunione, quella che realizziamo nelle nostre case, quella che viviamo nella parrocchia, non è un vago segno, non è un rimando incerto alla nostra comunione con Dio, ma è la comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Proprio quell’umile e semplice comunione che è la Chiesa, è l’unica strada per incontrare il Padre e il Figlio.
Oggi ci è difficile accettare questo: si preferisce pensare (illudersi) di poter incontrare Dio anche senza vivere quella comunione che è la Chiesa. La comunità credente (vivere la comunione con Dio “in” e “tramite” la comunità credente) non è un optional. Non si dà evangelo, cioè: non si dà la buona relazione con Dio, se non dentro la trama delle relazioni ecclesiali, luogo dell’accoglienza della Parola quale autentica Parola di vita.
La Chiesa è l’evangelo accolto, la Parola di vita nel prisma della risposta credente, la voce di Gesù che si fa eco nel discepolo, la Pasqua del Signore che crea la comunità, l’incontro con Lui che perdona il nostro tradimento e rigenera la nostra solitudine, il dono del suo Spirito che riconcilia le nostre separazioni e solitudini. In questa comunione (in questa comunione che è la Chiesa, la Chiesa nella sua concretezza di realtà storica e visibile, la Chiesa nella sua umana povertà…) è davvero presente il Signore!
Indichiamo ora alcune conseguenze: il primo e fondamentale “momento” della Chiesa comporta il riconoscere dove si fonda il nostro “essere insieme”: il fondamento è un’esperienza, ma non prima di tutto un’esperienza nostra bensì un’esperienza ricevuta, di cui noi non siamo titolari, ma di cui siamo tutti discepoli. Prima di essere consacrati, preti, vescovi, laici…c’è un punto che ci unisce e precede tutti: siamo discepoli dell’unico Signore che abbiamo incontrato come Parola che è vita e dà la vita.
Ecco una prima conseguenza: la Chiesa c’è per dire e comunicare il Signore; si è nella Chiesa soprattutto per Lui, perché c’è Lui. Questa è la ragione fondamentale per cui noi siamo una comunione fraterna. Occorre essere persuasi che stare insieme perché ci si trova bene, perché ci si sente accolti, perché ci si comprende…, sono esperienze belle ed anche necessarie; tuttavia per quanto tutto ciò sia importante, rimane radicalmente insufficiente. Noi siamo nella Chiesa in ragione dell’appartenenza a Cristo. Siamo nella Chiesa perché abbiamo contemplato e abbiamo trovato Colui che è la Parola di vita.
Una seconda conseguenza riguarda l’annuncio e la comunione. La Chiesa, abbiamo detto, è la comunione che nasce dall’annuncio dell’apostolo e della comunità apostolica ed è una comunione visibile.
Allora l’annuncio non è solo verbale; l’annuncio del Vangelo è costituito di fatti e parole, di gesti e insegnamenti tra loro intrinsecamente connessi, tra loro profondamente collegati.
Credo che si debba temere la frequente oscillazione tra parola e gesto, tra annuncio e carità, continuando ad altalenare dall’una e dall’altra parte, seguendo le “mode culturali”. Contrapposizioni del tipo: “Dobbiamo essere una Chiesa della carità, che fa prevalentemente volontariato, che sta con gli altri, che serve, che aiuta…, oppure una Chiesa che prega, che medita, che ascolta la Parola, che punta sulla formazione…?”, sono inutili, improduttive, defatiganti…; e se si opta solo per l’uno o solo per l’altro aspetto ciò significa che qualcosa non ha funzionato o non funziona.
Occorre ritrovare la circolarità armonica tra i momenti della Chiesa: la missione della Chiesa non ha altra modalità che la comunione e la comunione non ha altro orizzonte che la missione. E’ importante costruire dentro di sé questa armonia cristiana, come una sorta di bussola interiore, evitando le schizofrenie diffuse tra parola e carità, tra azione e contemplazione.
Occorre ancora ricordare che l’annuncio, fin dall’origine, ha una forma sacramentale. All’inizio della vita cristiana stanno dei gesti che non abbiamo posto noi, che nessuno si è inventato, ma che abbiamo ricevuto da altri. Credo che il problema nodale, a questo proposito, sia quello della “iniziazione cristiana”: cioè di quel cammino “esperienziale” percorrendo il quale si perviene a trasmettere e a maturare una “fede adulta”.
Da ultimo, l’annuncio -inteso nella sua accezione completa- genera comunione; comunione vera, costituita da una fitta rete di rapporti fraterni. E senza porre irraggiungibili mete, senza sognare e fantasticare una comunione idealizzata, perché non cominciare con l’accogliere quei rapporti che ho già con gli altri facendoli diventare “fraterni”? Perché non cominciare dalle cose quotidiane, normali, sobrie, dall’apprezzare le cose di ogni giorno? Sono convinto che questo potrebbe diventare un “segno che annuncia” anche per la vita familiare, anche per il nostro stare insieme feriale…Forse le comunità cristiane sono poco fraterne perché sono comunità di singoli e non di famiglie; e la famiglia è un elemento di umanizzazione della comunità cristiana.
Ed ecco la terza conseguenza. La comunione che è la Chiesa è il luogo dove incontriamo Dio. Che cosa si cerca oggi nella Chiesa? Al fondo di tutto, penso che la Chiesa dovrebbe essere il luogo ove cercare se mai sia possibile oggi nella città degli uomini ancora incontrare Dio.
Certo è proprio quella visibile comunione fraterna attorno a Cristo il luogo ove è realmente possibile incontrare Dio. Tuttavia questo non è automatico e magico: richiede costante tensione, costante impegno di conversione, costante cammino verso la pienezza… Questo è il “mistero” della Chiesa!
Mi piace riassumere così quanto siamo venuti fin qui dicendo:
ü la Chiesa è il luogo della Parola che dona la vita; Parola che interpella e propone;
ü la Chiesa è luogo dell’ascolto che si fa risposta concreta;
ü la Chiesa è luogo del dialogo.
ü Proprio per questa strada la Chiesa è chiamata ad essere luogo della trasmissione della fede; in altri termini, la Chiesa è quella realtà alla quale il Signore Gesù ha affidato un compito: «Andate e fate discepole tutte le nazioni» (Mt 28,19). La Chiesa, dunque, è chiamata ad essere «Madre e Maestra» (cfr Giovanni XXIII, Enciclica “Mater et Magistra”, 15 maggio 1961), realtà che educa, realtà capace di far crescere al suo interno veri figli di Dio e di offrire motivi di speranza e di vita in ogni contesto umano, anche al di fuori dei confini della comunità dei credenti, promuovendo la libertà e la dignità piena di ogni persona umana.
2. La Chiesa «Madre e Maestra» genera ed educa i figli di Dio nelle varie espressioni della sua vita e della sua missione
Affrontiamo ora più direttamente il nostro tema: quello dell’educazione. Nel discorso che il papa Benedetto XVI rivolse, il 19 ottobre 2006, al Convegno ecclesiale di Verona, troviamo affermato che l’educazione della persona è «una questione fondamentale e decisiva» e che pertanto «occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare». L’11 giugno 2007, in occasione del Convegno annuale della Diocesi di Roma, il papa è tornato sullo stesso argomento, sottolineando che siamo in presenza di una grande «emergenza educativa» per «la crescente difficoltà che s’incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento»: difficoltà che coinvolge sia la scuola sia la famiglia e ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi. Educare appartiene alla dimensione materna della Chiesa e ne fa emergere la fecondità. Il tempo che ci è posto innanzi impegna ogni comunità cristiana a ritrovare il gusto e la gioia dell’educare.
Possiamo chiederci: quali sono le motivazioni profonde di questa emergenza educativa? L’educazione e la formazione della persona hanno anzitutto e necessariamente a che fare con la persona stessa, ossia con l’uomo, inteso nel senso di essere umano, comprensivo della differenza tra uomo e donna.
Quando avviene che non sia chiaro o che muti profondamente il senso che attribuiamo alla parola “uomo”, non possono non entrare a loro volta in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i paradigmi educativi.
Vorrei allora proporre una seconda catechesi che ci aiuti a riscoprire chi è l’uomo e lo facciamo ripercorrendo quell’esperienza così fondamentale nella vita della Chiesa e di ogni cristiano che è la celebrazione eucaristica.
2.1. La celebrazione eucaristica: singolare “paradigma” educativo
Vorrei tentare di “mostrare” come l’esperienza costituita dal “celebrare” l’Eucaristia sia “luogo” capace di far conoscere la persona umana a se stessa quale “essere dialogico” e sia, pertanto, “luogo” capace di “e-ducare” alla “dialogicità”.
Partiamo da una semplice costatazione: quando risuona una parola o appare un segno si è soliti ricondurne il significato all’intenzione di chi ha emesso la parola o ha posto il segno. Viene voglia di pensare che -in questo modo- il “mittente” venga a svolgere un ruolo, per così dire, di “padrone del linguaggio”, mentre al “destinatario” non resterebbe altro compito se non quello di ascoltare e di rispettare l’intenzione del mittente.
La “sudditanza” del destinatario si aggrava se l’autore dei segni e delle parole è particolarmente autorevole: come sarebbe nel caso dei genitori, degli insegnanti, degli educatori…; di un testo sacro che ha Dio per autore… In questo caso il destinatario sembra dover scomparire!
Eppure, a pensarci bene, è proprio nel caso dei testi sacri (della Parola di Dio) che si sviluppa, in modo particolarmente vistoso, il fenomeno della “presenza attiva” di colui cui la parola (il messaggio) è rivolta. Sì, perché il mittente da cui trae origine il “progetto” contenuto ed espresso dalla parola, ha un “progetto di vita, un progetto di salvezza” che è totalmente rivolto al destinatario, che è un “farsi carico” del destinatario, che è un “amare” il destinatario. Possiamo dire che quella parola risuona in verità e pienezza solo per il destinatario e solo se il destinatario accetta di entrare in un “circolo comunicativo” con il mittente.
La celebrazione liturgica cristiana appartiene e si riconosce in questa dinamica; essa è esperienza intesa -di sua natura- a instaurare e a far vivere un “circolo comunicativo”; la celebrazione liturgica “gioca” sulla comunicazione, sulla relazione, sull’inter-azione tra mittente e destinatario; anzi, affida proprio al destinatario il ruolo di essere “punto di svolta” del circolo stesso. Tale punto di svolta si configura, più precisamente, come “risposta” a fronte di una “proposta”; come “reazione di ritorno” rispetto all’interpellanza ed alla comunicazione da parte del mittente.
Pensiamo: già lo stesso riunirsi dell’assemblea celebrante appartiene a tale “risposta”, ne è il momento iniziale, ne costituisce l’origine. Perché, in realtà, l’assemblea è il concreto rispondere ad una “convocazione” da parte di Dio.
La celebrazione, nel suo complesso, è da comprendersi fondamentalmente come la “risposta cultuale” alla proposta di Dio, al suo intervento salvifico nella storia: noi siamo lì per ringraziare e per lodare il Padre di tutte le misericordie. Per questo, colui che nella celebrazione è destinatario è anche colui che porta a maturazione la celebrazione stessa, colui che matura e fa maturare nella lode e nel ringraziamento. Tutto questo lo abbiamo riscoperto e lo abbiamo definito come “partecipazione”: non “spettatori”, bensì “partecipi”.
La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, sintetizzando quanto proviene dalla Rivelazione e dalla Tradizione definisce la celebrazione liturgica utilizzando un metodo descrittivo. Tra tutti gli elementi che SC ricorda è possibile individuare come un “trittico” capace di ben definire la complessità della natura della liturgia. Essa è:
“mistero” (= piano salvifico che ha il suo cuore nella Pasqua di Cristo e che viene riattualizzato dalla Chiesa)
“celebrato” (= nella modalità cultuale nella quale Cristo esercita il suo sacerdozio e nella quale “segni visibili” realizzano ciò che significano”)
“per l’uomo” (= il quale incorporato alla Chiesa e partecipante alla celebrazione glorifica Dio ed è santificato).
Questi tre elementi non possono venire considerati indipendenti l’uno dall’altro; bensì sono strettamente congiunti così da essere coessenziali ad ogni atto cultuale cristiano.
- Il “mistero” nascosto da secoli in Dio, rivelato manifestato realizzato in Cristo attraverso (e nella) Pasqua, è presente nella celebrazione secondo le modalità del “memoriale”.
- La “celebrazione”, memoriale della storia della salvezza, riattualizza il mistero di Cristo nel tempo e nello spazio della Chiesa.
- L’“uomo partecipando” all’azione liturgica partecipa al mistero, glorifica Dio, viene santificato, così che la liturgia è «culmine e fonte» (Sacrosanctum Concilium, n. 10) di tutta l’attività della Chiesa.
E’ compito dello Spirito unificare e rendere dinamici i tre elementi sopra descritti. E’ la sua presenza ed azione quella che permette al memoriale del mistero di farsi liturgia dell’atto celebrativo; ma anche che la vita dell’uomo nel culto cristiano sia liturgia rivolta al Padre per mezzo di Gesù Cristo.
In sintesi: la liturgia è “la celebrazione rituale dell’Alleanza da parte del popolo cristiano riunito in assemblea”.
Componenti “strutturali” del fatto liturgico, allora, sono:
- l’“assemblea”; segno della “convocazione” del popolo da parte di Dio; espressione ed implicazione della Chiesa la quale è dall’assemblea annunziata e manifestata nella sua natura; riunione di credenti -ministerialmente servita e presieduta- in un luogo e in un tempo; in continua ed articolata ”relazione” con la Trinità o meglio col Dio che essendo Padre-Figlio-Spirito genera una storia di relazione/comunicazione, una storia salvifica che proprio nell’atto celebrativo ha la sua espressione sacramentale di cui l’assemblea prende coscienza e a cui “partecipa”; cosciente della sua natura “sacerdotale”; situata in un concreto tessuto storico-sociale-culturale (= radicata in una comunità);
- la “Parola” e
- il “segno/simbolo”.
Se l’assemblea è la componente “soggettiva” e “personale” della struttura della celebrazione, la Parola ed il segno/simbolo ne sono le componenti “rituali/celebrative”. Intendo qui per “rito” l’azione simbolica compiuta dall’assemblea, risultante da parole pronunziate e da gesti eseguiti ed aventi significato in un preciso contesto: quello della storia delle “relazioni” del Dio Uni-Trino con l’uomo nel mondo.
Davvero l’esperienza liturgica rivela la comprensione dell’uomo quale “essere dialogico” e si propone come “palestra” per apprendere la “dialogicità”…
2.1.1. I riti di introduzione
Non hanno per nulla un ruolo estemporaneo: hanno invece una doppia e ben precisa finalità:
- promuovere il senso di comunicazione e di comunione tra i fedeli che si radunano;
- suscitare la giusta disposizione per ascoltare ed accogliere la Parola e celebrare l’Eucaristia.
Il “fulcro” che regge questi momenti è costituito dall’esperienza di un incontro comunitario e i segni non verbali, le prime espressioni di saluto, l’inizio del dialogo, l’invito alla partecipazione fatto sotto forma di monizione iniziale…, tutto porta verso questo centro unificatore che è l’incontro dei fedeli in nome del Signore e proprio questo “in nome del Signore” rende “speciale” l’umana esperienza dell’incontro: è un incontro vero e pienamente umano, eppure non è come andare a teatro…La consapevolezza di questo incontro e il rendersi disponibili a questo “stare insieme” in maniera diversa è l’atteggiamento fondamentale da viversi nei “riti di introduzione”. E la preghiera pronunziata dal sacerdote e chiamata “orazione colletta” (orazione del popolo radunato) sigilla questi primi passi della celebrazione.
2.1.2. La liturgia della Parola
Questa parte della celebrazione eucaristica s’impone ancor più esplicitamente quale espressione/educazione al “dialogo”, infatti, il suo schema è: Dio/uomo; Parola di Dio/risposta dell’uomo.
E’ evidente che il “fulcro” di questo momento è costituito dall’esperienza dell’ascolto/assenso nei confronti della Parola di Dio. Il “processo educativo” qui proposto parte dalla consapevolezza che Dio parla all’uomo, gli si rivolge, lo interpella, lo chiama e diventa concreto aiuto a “sapere” che nella celebrazione Eucaristica l’uomo che “partecipa” è posto a “confronto diretto” con questa Parola alla quale occorre rispondere. Se i piccoli e semplici gesti che compongono la liturgia della Parola sono “veri”, allora si è gradualmente condotti all’ascolto e alla risposta, a rendere vero quanto acclamato: Parola del Signore – Lode a Te, o Cristo!
2.1.3. La liturgia Eucaristica
- Nella “preparazione dei doni” o offertorio non vi sono tante parole; vi è presente soprattutto l’atto del “donare”; l’esperienza educativa è di quelle “forti”, perché qui il dialogo diventa “dono”, diventa “scambio”, diventa “attenzione all’altro”: è come un “maturare”, un “crescere” che culmina in quelle parole: «In alto i nostri cuori – Sono rivolti al Signore».
- Nella “Preghiera Eucaristica”, la “logica della vita intesa quale dono” non è più solo “annunciata” o “detta”: è resa presente. Le parole e i gesti rendono presente il Signore Gesù: abbiamo lì un cibo da mangiare e una bevanda da bere che sono realmente il corpo del Signore dato e il suo sangue versato.
- Nei “riti di comunione” il dialogo ed il dono si fanno reciproca immedesimazione: il Signore Gesù “fa spazio a noi e ci accoglie”, noi “facciamo spazio a Lui e Lo accogliamo nella nostra vita” e così “impariamo” tutte le principali dinamiche d’una vita effettivamente matura…
In sintesi: gli uomini e le donne che costituiscono l’assemblea presentano (si separano da, portano e offrono a qualcuno) il dono; questo è accolto e “trasformato”: un “racconto” lo inserisce nell’evento della Pasqua e la Preghiera Eucaristica invoca il “realizzarsi” di quanto raccontato (“che quei santi doni siano il sacrificio di Gesù”); non solo, è pure invocata la “trasformazione dei donanti” (“che anch’essi diventino comunione con quel sacrificio; siano partecipi e parte di quel sacrificio”); si verifica qui un nuovo “donare”, un nuovo separarsi da, un nuovo offrire; e gli uomini e le donne che costituiscono l’assemblea vengono ad accogliere, a “mangiare e bere”, ad “aver parte”: sono così trasformati e diventano il “Corpo di Cristo che è la Chiesa”: quella Chiesa “comunione” di cui abbiamo parlato nel primo capitolo.
Voglio concludere questa “catechesi” nella quale ho cercato di far emergere come l’Eucaristia celebrata ci aiuta a scoprire chi è la persona umana e per quali passi essa possa essere “edificata” con l’invito pressante perché le nostre celebrazioni aiutino davvero a scoprire il “singolare paradigma educativo” che vi è contenuto e non lo oscurino: fretta, sciatteria, improvvisazione…, sono proprio i modi per “oscurare” quella ricchezza educativa… Sgorga da qui l’istanza sempre da riprendere con impegno: educhiamo alla liturgia per poter essere educati dalla liturgia. Vedete, carissimi, non sto parlando di “cose sempre nuove e stravaganti” da far fare; sto parlando di un’iniziazione al senso del celebrare, alla gestualità, al senso dell’assemblea; si tratta di far sperimentare che quanto il corpo, nell’atto celebrativo, compie e vive nello Spirito può e deve diventare la “misura” con cui il cuore ama, la mente comprende, la bocca esprime…
2.2.Tre punti e alcune proposte di metodo
Mi pare che una lettera pastorale sul tema dell’educazione e la conseguente impostazione pastorale dell’attività della Diocesi su questo tema possa muoversi sulle seguenti linee di fondo. Linee che devono essere presenti nella nostra “mens” pastorale.
Inoltre credo che sia utile trovare un “punto d’innesto” sul Convegno di Verona (per non disperdersi e per “fare tesoro” del magistero della nostra Chiesa che è in Italia). Tale “punto d’innesto” è costituito esattamente da quell’ambito di "tradizione” che non può di certo, essere descritto come una consegna dottrinale della fede ma come un fatto d’incontro di generazioni diverse, come un racconto della speranza che attraverso i secoli è giunto fino a noi, e incontrando la nostra storia, genera a sua volta speranza. “La testimonianza della speranza ha così l’insostituibile funzione di dare consistenza e stabilità all’identità consapevole dei fedeli, rendendoli capaci di essere protagonisti maturi della fede, cioè, a loro volta, testimoni per i fratelli e nel mondo”[1].
Rimane anche come punto di riferimento il passaggio “I giovani e la famiglia”, n. 51 de “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”. L’esigenza descritta è quella di guardare al giovane non come un’età chiusa in se stessa e nei suoi problemi ma come una fase propedeutica all’età adulta e alle sue responsabilità. “Per amare da persone adulte, mature e responsabili, bisogna saper assumere tutte le responsabilità della vita umana: studio, acquisizione di una professionalità, impegno nella comunità civile. Le esperienze forti possono tanto più giovare quanto più si coniugano con i cammini ordinari della vita, che consistono nell’operare scelte di cui poi si è responsabili”.
2.2.1. Educare è un’attività eminentemente umana, descrive l’umano per eccellenza
“Tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona, hanno il diritto inalienabile a un’educazione che risponda al proprio fine, convenga alla prima indole, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese e insieme aperta a una fraterna convivenza con gli altri popoli al fine di favorire la vera unità e la pace sulla terra. La vera educazione però promuove la formazione della persona umana in vista del suo fine ultimo e nello stesso tempo per il bene delle società, delle quali l’uomo è membro e nelle quali, divenuto adulto, avrà mansioni da svolgere” (Gravissimum educationis, 1).
L’uomo è tale grazie a un’opera di educazione che viene compiuta. Opera di educazione che non consegna una forma già conosciuta di esistenza ma che sa far emergere la persona nel proprio cammino e nel proprio incontro con la realtà. «Il compito di educare non può essere rappresentato, in tal senso, quasi consistesse nel conferire alla vita e alla persona del figlio una forma nota ai genitori dapprima»[2].
Inoltre abbiamo bene presente che educare è compito non tanto di plasmare l’altro ma di far emergere possibilità e rischi della persona che abbiamo di fronte che viene coinvolta in un rapporto relazionale che muta (o dovrebbe mutare) anche le condizioni stesse dell’educatore.
Sarà bene allora, su questo tema, evitare ogni ipotesi in cui l’intervento educante venga descritto come risolutivo. Il rischio grande in un’epoca incerta come la nostra, frammentata e relativista, è quello di proporre un’idea “debole” oppure un’idea “autoritaria” di educazione: occorre, ritengo, un’idea “umile”; occorre proporre un’idea di educazione che abbia “la forza e la tenerezza dell’amore”; lo “stile educativo di Dio e del Figlio suo Gesù…” Non possiamo poi dimenticare che non siamo gli unici attori della scena e vi sono altre persone e altre agenzie educative. Questo non significa essere minimalisti ma realisti, facendo i conti, in pacatezza, con la fatica di educare, la possibilità dell’insuccesso e della sconfitta. Il rischio di educare, appunto.
E’ per altro fondamentale ricordare che noi intendiamo porre al centro del processo educativo, come suo fine e pieno inveramento, la comunione con Cristo che è la via, la verità e la vita di ogni persona umana; questo vuol dire orientare tale processo alla centralità della persona, al valore assoluto delle relazioni interpersonali, all’inesauribile ricerca della verità che, pur conquistata con certezza al di là di ogni tentazione soggettivistica o relativista, non esaurisce mai l’appello ad un’ulteriore esplorazione e ad un fecondo e vero dialogo e stimola la ragione a esercitarsi sempre di nuovo di fronte all’ineludibile e sorprendente novità dell’iniziativa divina nella storia… In questa luce si colloca la sfida educativa affidata alla Chiesa, «Madre e Maestra».
Ritengo che la giusta impostazione della sfida educativa richieda a noi di riconoscere che il fine del processo educativo è la verità dell’uomo in Cristo, in vista del quale è stato creato l’universo e in riferimento al quale ogni uomo, fin da prima della creazione del mondo, è «predestinato ad essere santo e immacolato nella carità» (Ef 1,4).
Non dobbiamo aver paura -come cristiani impegnati nel “mondo”, singolarmente o in varie forme associative- di assumere l’arduo compito educativo quale modo esigente di “dar ragione” a chiunque lo chiede, proprio di quella speranza centrata sulla venuta di Cristo nella storia che è alla base del modo “cristiano” di ragionare, di vivere, di educare alla pienezza della verità (anche “razionale”!) e del bene (anche quello raggiunto nel consenso “etico”).
Provo ad approfondire un aspetto nodale per riguardo a quanto detto sopra. Mi riferisco al “caso serio” della libertà. La diffusa ricerca umana della libertà costituisce il luogo fecondo di una rinnovata educazione alla fede.
Sappiamo quanto la mentalità odierna sia incline ad individuare nella libertà non solo una facoltà del soggetto ma piuttosto l’essenza del suo stesso esistere come uomo, sottratta ad ogni controllo e ad ogni disciplina. La libertà individuale, i desideri dell’individuo sono diventati il nuovo spazio del diritto insindacabile e assoluto. Eppure la storia anche recente dell’umanità dimostra con evidenza che una libertà cercata e realizzata come fine a se stessa è causa di veri e propri disastri: come il sonno della ragione, così anche la libertà umana produce mostri, se non è adeguatamente finalizzata a valori più alti e, in ultima analisi, all’esercizio di un vero amore.
Qui si realizza, anche in termini educativi, l’incontro tra l’anelito del nostro tempo ed il messaggio cristiano che è, nella sua essenza, un evento di libertà. “Dio è amore” (1Gv 4,8.16) e l’amore è sempre evento di libertà. La libertà di Dio non si presenta come concorrente con la libertà umana, bensì come libertà che la rende concretamente possibile, consentendole di esistere, di perdurare e di trovare, finalmente il proprio fine adeguato, l’unico “contenuto” in grado di sostenerne e motivarne il drammatico ed impegnativo esercizio.
L’agire libero e amorevole di Dio ci introduce nella relazione (“comunione”) con Lui. Soltanto dentro quest’orizzonte l’uomo può realmente essere libero e sentirsi assegnato al carattere affidabile di una relazione nella quale la sua libertà si sente affermata e riconosciuta. Quando due persone si amano, l’una non reprime l’altra e l’amore significa anzitutto spogliazione e donazione di sé ma, al tempo stesso, anche influsso e “condizionamento” dell’altro. Non per questo, però, si dirà che l’amore assume il carattere della violenza e della coercizione.
Solo in questo rapporto tra la “donazione di sé” e l’”offerta amorevole di un’adeguata disciplina” l’educazione raggiunge il suo fine. Ciò vale tanto per quella di Dio nei confronti del suo popolo, quanto per quella esercitata da quanti hanno responsabilità educative.
La libertà andrà sempre considerata, nell’educare cristiano, non come un pericolo -come se la migliore condizione dell’educare sia quella di una minore libertà- ma come una possibilità, anzi un dato indispensabile alla crescita della persona, quando tale libertà sia vissuta in una misura che cresce con il crescere dei valori e delle motivazioni di alto profilo che il processo educativo riesce a far maturare nella persona stessa. La libertà non è soltanto un dato originario ed un elemento base della dignità della persona umana, ma sempre si traduce in un processo continuo di liberazione e di custodia affidato alla relazione educativa, sostenuto da una vera autorevolezza da parte dell’educatore e ad una costante collaborazione da parte del soggetto chiamato ad assumersi la propria responsabilità di autoeducazione.
2.2.2. Educare è la stessa vita pastorale della Chiesa
La Chiesa da sempre è stata chiamata a confrontarsi con il tema dell’educazione. Tempo, il nostro, in cui si è compreso che non può esistere un’educazione “a strati”: educhiamo prima l’uomo “naturale”, poi la sua dimensione genericamente religiosa, poi il credente in Cristo e infine il discepolo impegnato nella sua figura vocazionale. Come abbiamo sopra ricordato è la persona umana colta nella sua interezza che intendiamo porre al centro del processo educativo, ben consci del primato della “verità di Gesù” in riferimento al pieno riconoscimento della “verità dell’uomo”. Ancora G. Angelini: «l’opera educativa espressamente mirata a suscitare la fede non può essere separata da quella volta a propiziare in genere l’accesso all’età adulta, e dunque alla libertà. Per questo suo profilo più comprensivo, d’altra parte, l’opera educativa cristiana non può realizzarsi in altro modo che riprendendo la verità iscritta nell’evento educativo così come esso si realizza, a monte della consapevolezza dei singoli, in ogni esperienza umana»[3].
Dunque educazione come responsabilità principale e come sfida. Sarebbe necessario riscoprire lo specifico educativo che deve avere tutta la nostra opera pastorale, rivolta ai giovani e non solo. Scoprendo, ad esempio, che forse proprio gli ambiti più incisivi, per un’opera educativa che sappia abbandonare ogni protagonismo, sono quelli in cui i giovani non sono primariamente messi a tema (carità, liturgia, famiglia, …).
Penso proprio che non siamo tanto chiamati ad attivare iniziative particolari e speciali; dobbiamo piuttosto guardare agli spazi di vita di una comunità, della fede, e dell’uomo evidenziane meglio e maggiormente la loro dimensione educativa. Certo alcune iniziative dovranno essere riscoperte e proposte, ma ben inserite nel cammino pastorale ordinario delle nostre comunità e gruppi. È quello che il card. C. M. Martini nella sua lettera pastorale Dio educa il suo popolo definisce come un “educare attraverso”[4].
A tal punto forse sarà opportuno insistere più che su iniziative specifiche su itinerari educativi. Sarà utile (e lo chiedo come impegno per gli Uffici pastorali) elaborare essenziali “itinerari educativi”, per aiutarci a riscoprire la qualità educativa insita nei cammini che la tradizione ci consegna. Per primo quello dell’Iniziazione cristiana, l’Eucaristia stessa (come ho cercato di mostrare nel primo capitolo) e l’anno liturgico…Mi sia consentito indicare in maniera breve e sommaria alcune linee che potrebbero entrare negli itinerari educativi.
ü Il problema educativo non è anzitutto un problema riguardante i bambini, i ragazzi e i giovani da educare. È un problema di adulti. In questa prospettiva la figura dell’educatore è il punto di partenza di ogni progetto educativo.
ü Riprendendo quanto sopra esposto occorrerà evidenziare chiaramente il fine dell’educare: Educare nella verità – Educare alla vita - Educare alla libertà/responsabilità – educazione comunitaria e personale.
ü Si tratta poi di individuare i soggetti e gli ambiti dell’azione educativa. Innanzitutto i “soggetti primari”: la famiglia – la comunità cristiana (nella sua dimensione parrocchiale e poi negli altri ambiti e articolazioni) – la scuola di ogni ordine e grado. Poi i “soggetti diffusi”: la compagine sociale e l’ambiente culturale – la comunicazione sociale – il mondo della professione e del lavoro – il mondo della sofferenza e del disagio. Per ognuno di questi soggetti ed in ciascuno di questi ambiti sarà necessario tener presente le diverse età: giovani – adulti – anziani.
ü Occorre anche non dimenticare il fatto che il cristiano va educato a vivere un “doppia cittadinanza”. Il Concilio Vaticano II e tutto il magistero post-conciliare afferma che sbagliano quei cristiani che sapendo che qui non abbiamo una città stabile, pensano di poter trascurare i doveri terreni e non riflettono che proprio la fede li obbliga ancor di più a compierli… Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna (cfr Gaudium et Spes, 43). Di fronte a quest’appello pressante i cristiani talvolta assumono atteggiamenti rinunciatari (“tanto non cambia nulla!”), oppure pensano di dover costruire una sorta di “cittadella cristiana” che rifiuta e delegittima, che innalza steccati e chiusure. Ovvero si ritiene di potersi adattare indiscriminatamente e acriticamente alla cultura dominante: se ne accettano mentalità, comportamenti e stili di vita. Eppure ai cristiani è chiesto di essere “sale” della terra e “lievito” della società.
Partecipare alla vita della propria città -per un cristiano- non è facoltativo; è impegno che sgorga dall’appartenere ad una Chiesa “comunione”, ad una Chiesa che celebra e vive l’Eucaristia: ognuno è chiamato a fare la sua parte.
Partecipare alla vita della propria città vuol dire anche per chi ha responsabilità politico-amministrative, fare spazio a chi vuole “aver voce” offrendo concrete possibilità e luoghi di “socialità, modalità trasparenti del governo della città e politiche sociali che prevengano l’esclusione ed includano gli esclusi.
Un progetto educativo non potrà, allora, non proporre -innanzitutto con la concreta testimonianza- un deciso “no” all’indifferenza, alla superficialità, alla distrazione…, ed un deciso “sì” ad uno “stile di vita” sostanziato di solidarietà (anzi, di fraternità), di sobrietà, di condivisione, di dono di noi stessi, del nostro tempo, delle nostre capacità..
ü Un fondamentale principio metodologico: l’educazione è opera corale, si educa tutti insieme o non si educa; i diversi interventi educativi vanno armonizzati e coordinati in maniera che ne risulti qualcosa di “organico”. Le Unità Pastorali possono essere il “luogo” per realizzare tale “pastorale integrata” ed esattamente questa dovrà essere la metodologia delle Unità Pastorali.
Ritengo poi necessario proporre un’attenzione particolare alla famiglia: dobbiamo ricostruire una “alleanza educativa” tra le famiglie e la comunità cristiana. Su questo punto desidero sostare in riflessione.
Sono note le difficoltà delle famiglie a coinvolgersi sul piano educativo. Sovente le famiglie sono immerse in forti tensioni, a causa dei ritmi del lavoro che si fa più incerto, per la fatica di un compito educativo che si fa più arduo, e per la distanza che si è andata maturando tra la visione cristiana del Matrimonio, della famiglia e modelli culturali di famiglia di fatto praticati a seguito di separazioni, divorzi, convivenze.
Le difficoltà nascono anche da parte della pastorale, che fatica a rivolgersi agli adulti in genere, e a rendere i laici corresponsabili nell’educazione alla fede. Una recente inchiesta sottolinea che la richiesta dei sacramenti da parte dei genitori per i loro figli viene sempre più motivata con l’idea della necessità e importanza della religione per la crescita umana. La formazione religiosa dei figli è desiderata perché dà ai genitori un senso di sicurezza. Nasce da qui, nella maggior parte dei casi, l’atteggiamento di “delega” delle famiglie alla Chiesa, perché questa sarebbe l’istituzione più capace di successo in campo educativo.
Compito perciò dei genitori, di coloro che si sono assunti la responsabilità di essere “genitori”, prima che amici e confidenti, è quello di rendere ragione al figlio della promessa che i genitori hanno fatto mettendolo al mondo: la promessa per cui “c’è una speranza per la tua vita; c’è anche un ordine di valori che tu puoi apprendere: rispettare e assimilare quest’ordine ti consentirà di non avere paura, di non temere mai che il mondo precipiti nel caos”.
Educare diventa, così, trasmettere il “segreto” che presiede allo stesso atto della generazione. Ma questo ha da essere un segreto che anzitutto costituisce la vita del padre e della madre, e come tale si pone sotto gli occhi del figlio come il “segreto” da scoprire. In questo senso, la figura del padre e della madre è assai più quella dei “testimoni” che non dei maestri, degli insegnanti e degli stessi catechisti. Essi sono educatori, perché genitori.
Occorre, ritengo, aiutare a scoprire non tanto e non solo i “doveri”, bensì il fondamento antropologico e cristiano della famiglia.
Matrimonio e famiglia non sono, in realtà, una costruzione sociologica casuale, frutto di particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la questione dell’essere famiglia affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata, cioè, dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono io? Che cosa è l’uomo? Per chi esisto io? E questa domanda, a sua volta, non può essere separata dall’interrogativo su Dio: esiste Dio? E chi è Dio? Qual è il senso dell’esistenza di Dio per me, per l’uomo?
La risposta della fede cristiana a questi quesiti è unitaria e consequenziale: l’uomo è creato a immagine di Dio, e Dio stesso è amore. Perciò la vocazione all’amore è ciò che fa dell’uomo l’immagine autentica di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa qualcuno che ama. La verità del matrimonio e della famiglia, che affonda le sue radici nella verità dell’uomo, trova qui il suo fondamento più vero. Nella generazione dei figli, come nel patto coniugale, perciò, la famiglia riflette il modello divino, l’amore di Dio per l’uomo. La famiglia diventa così l’ambito privilegiato, dove ogni persona impara a dare e ricevere amore. Essa si esprime anzitutto con l’avere cura. L’avere cura, inteso come l’avere a cuore gli uni degli altri, che non riduce gli altri soggetti a oggetti, diventa la modalità fondamentale delle relazioni familiari, e la ragione per cui la famiglia persiste, in una società sempre più caratterizzata dal prevalere di rapporti funzionali. Inoltre, quando la famiglia non si chiude in se stessa, i figli imparano che ogni persona è degna di essere amata, e che c’è una fraternità fondamentale, che va oltre le mura di casa.
La famiglia e la Chiesa, in concreto le parrocchie e le altre forme di comunità ecclesiale, sono chiamate alla più stretta collaborazione per quel compito fondamentale e unitario che è costituito, inseparabilmente, dalla formazione della persona e dalla trasmissione della fede. Per questo occorre un’effettiva alleanza educativa, che non è scontata, tra famiglie e comunità cristiana.
La via da percorrere verso un’alleanza educativa tra famiglie e comunità cristiana è quella dell’accompagnamento. Per ridurre le distanze e contenere il conflitto è determinante, pertanto, assumere il vissuto quotidiano delle realtà familiari. Il plurale “realtà familiari” qui è d’obbligo. Se si vogliono evitare generalizzazioni indebite, importa anzitutto rendersi conto delle diverse forme dell’esperienza familiare e, in questa luce, rilevare le dinamiche che effettivamente muovono il relazionarsi reciproco di genitori e figli.
Si apre allora un ventaglio di situazioni fra loro diversificate e difficilmente riconducibili a un unico denominatore. È impossibile trattare pastoralmente il soggetto ‘famiglia’ come se fosse una realtà univoca. In buona sostanza, occorre avere una visione “plurale” della situazione della famiglia rispetto al compito educativo, quando si pensa a una programmazione pastorale.
In conclusione, va rimarcata anzitutto l’inevitabilità del coinvolgimento familiare per ogni processo formativo. Al tempo stesso, occorre ribadire che la famiglia da sola non basta, perché è parte di un sistema sociale e della comunità ecclesiale. Non solo: va preso atto che la famiglia è un “genere plurale”, per cui l’azione pastorale non potrà essere semplicemente l’attivazione di una funzione assopita, ma dovrà prevedere una diversificazione di proposte. Così, famiglie e comunità cristiana iniziano a camminare insieme per diventare, senza confondersi, i due grembi privilegiati dell’iniziazione alla fede.
2.2.3. Educare è opera di tutta la Chiesa
È forse il punto più delicato perché richiede la delineazione delle figure di Chiesa che si prendono cura dell’educazione. È necessario su questo punto proporre cammini concreti di corresponsabilità alle nostre comunità. Educare non prevede nessun tipo di delega. Certamente prevede e richiede una competenza umana, di fede ed ecclesiale. Nella Chiesa non vi sono figure solitarie preposte all’educazione, ma è la Chiesa tutta chiamata ad educare. Questo perché tutta la Chiesa è discepola dell’unico Signore. In questo senso la Chiesa potrà essere presentata, anche e non certamente solo, come una comunità educante che sa mettersi in ascolto del suo grande educatore che è Cristo Signore. E da questa stessa opera nasce la Chiesa, ne è come generata.
«In ogni impresa umana veramente educativa la dimensione comunitaria è presente. Basti pensare alla comunità più originaria e più decisiva per l’educazione, la famiglia. Nessun grande genio educatore si mosse mai senza immediatamente generare comunità. Il senso dell’universale genera, inesorabilmente, il senso della comunità. Un’ipotesi di senso totale veramente vissuta non può che presentarsi come comunità. Questa struttura “ontologica” della ricerca del vero è dal cattolicesimo fatta addirittura condizione di salvezza, presenza inesauribile del Significato tra gli uomini. L””autorità” stessa ha come funzione tipica la genesi della comunità”[5].
In tutto questo emergerà un’esperienza di Chiesa con forti legami educativi al suo interno ma anche la prospettiva di una Chiesa che sa creare rete, sa essere aperta sulle dinamiche del territorio pur portando la radicale novità del messaggio cristiano
Perché, ad esempio, non mettere a tema la pastorale degli ambienti propri dei giovani: sia quanto sta all’origine della loro esperienza (famiglia) sia l’ambiente stesso in cui si trovano ad operare e a vivere (scuola e tutte le dimensioni del tempo libero).
E poi: come i giovani vedono le nostre comunità cristiane? Come creare un dialogo con chi, giovane, impegnato sui tanti versanti del “sociale” e del “politico” non sente la necessità di un’adesione a Gesù? Quale proposta di vangelo portare a loro?
Insomma, ancora una volta emerge con forza l’esigenza di una “pastorale integrata”.
La capacità educativa è nell’attività ordinaria delle nostre comunità con la catechesi, con la liturgia e con la carità. La comunità parrocchiale ha l’opportunità di educare non per mezzo di qualche cosa ma attraverso le sue dimensioni costitutive.
Desidero sottolineare nel ministero dei sacerdoti il sacramento della Riconciliazione.
Cari confratelli sacerdoti, cercate di dare del tempo per le confessioni: è un ministero fondamentale in vista dell’educazione. Egualmente importante è il servizio di accompagnamento personale: non si può collettivizzare l’educazione. Il gruppo è utile e necessario, ma non basta. E’ necessario dare del tempo a ciascuno, favorendo la confidenza sincera, la discrezione e l’affetto profondo. Si tratta di riscoprire quella “paternità spirituale” capace di motivare profondamente il nostro compito pastorale.
Allora: quale metodo di lavoro per gli uffici pastorali?La capacità educativa è nell’attività ordinaria delle nostre comunità con la catechesi, con la liturgia e con la carità. La comunità parrocchiale ha l’opportunità di educare non per mezzo di qualche cosa ma attraverso le sue dimensioni costitutive.
Desidero sottolineare nel ministero dei sacerdoti il sacramento della Riconciliazione.
Cari confratelli sacerdoti, cercate di dare del tempo per le confessioni: è un ministero fondamentale in vista dell’educazione. Egualmente importante è il servizio di accompagnamento personale: non si può collettivizzare l’educazione. Il gruppo è utile e necessario, ma non basta. E’ necessario dare del tempo a ciascuno, favorendo la confidenza sincera, la discrezione e l’affetto profondo. Si tratta di riscoprire quella “paternità spirituale” capace di motivare profondamente il nostro compito pastorale.
Invito a cogliere la proposta del tema educativo come una grande occasione: per aiutare la Diocesi a costruire una “pastorale integrata” vera ed effettiva, tutti gli Uffici pastorali sono chiamati ad operare in maniera coordinata propriamente attorno a questo tema. Mi pare che la prospettiva possa essere doppia.
Da una parte alcuni settori (famiglia, giovani, vocazionale, scuola, lavoro, cultura) devono essere di stimolo ai grandi ambiti della pastorale (carità, liturgia, evangelizzazione) perché sappiano proporsi nettamente ai giovani, con linguaggi e metodi adeguati
Dall’altra parte, la pastorale di settore deve irrobustirsi alla luce delle grandi esperienze educative della chiesa (catechesi, liturgia/preghiera, esercizio della carità).
3. Mezzi per “essere” e per “operare”
Desidero ancora intrattenermi con voi su tre realtà che ritengo strumenti fondamentali per poter pervenire ad essere davvero “Chiesa comunione, Chiesa comunità educante”. La prima realtà è quella che ci vede impegnati da circa un anno: le Unità Pastorali; le altre due (l’Iniziazione cristiana e la formazione di operatori pastorali che siano veri collaboratori corresponsabili) dovranno impegnarci nella riflessione, nelle scelte, nell’impegno in un prossimo futuro.
3.1. Le Unità Pastorali: “concretizzazione” della Chiesa comunione
3.1.1. Le idee fondamentali
Desidero riprendere qui quanto, con affetto fraterno, ho proposto ai presbiteri, in particolare, ma a tutta la nostra Chiesa diocesana, lo scorso Giovedì Santo durante la Messa Crismale:
«…Di fronte alla gente del nostro tempo -a tutti!-, la Chiesa avverte la gravissima responsabilità di compiere la missione ricevuta dal suo Signore, ma insieme riconosce l’inadeguatezza dei mezzi di cui dispone. Di questa inadeguatezza -che è strutturale e di cui dobbiamo essere coscienti sempre, in qualsiasi situazione e in ogni momento -sono segno anche la diminuzione e l’invecchiamento del clero. E ci pare, allora, di risentire, quasi uscisse dalle nostre stesse labbra, la voce delusa di Andrea, l’apostolo, in mezzo alla grande folla senza cibo: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?” (Gv 6, 9).
Ma se i preti diventano anziani, la Chiesa rimane giovane, è sempre ricolma della fresca audacia dello Spirito.
Se i preti diventano pochi, la missione però rimane universale e la Chiesa non può accettare che qualcuno -neppure uno!- sia privato del Vangelo e dell’Eucaristia, sia lasciato nell’ignoranza circa la sua vocazione e le sue responsabilità, la sua dignità e il suo destino.
Dovremo pertanto offrire al Signore quel poco che abbiamo, quel poco che siamo, perché dia lui la sua benedizione e distribuisca quello che serve per saziare la fame di tutti.
Siamo allora invitati a coltivare, in particolare, la vigilanza, quella vigilanza che Gesù ha fortemente e ripetutamente richiamato ai suoi discepoli. Siate vigilanti!
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione di svuotare il senso di appartenenza al presbiterio e l’impegno di obbedienza espresso nell’Ordinazione presbiterale.
La missione che ci è affidata è un’impresa troppo grande e una grazia troppo alta perché si possa immaginare che sia meglio viverla da soli piuttosto che insieme con il Vescovo e con i confratelli. E la gente, alla quale siamo mandati, è troppo importante e preziosa per il cuore di Dio perché possa essere disorientata da scelte pastorali eccessivamente legate alla sensibilità e alle idee dei singoli preti.
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione della possessività, che ci porta a legare a noi stessi, più che al Signore, la comunità alla quale siamo mandati.
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione della paura di non essere di nessuno, tentazione questa che ci induce ad aggrapparci a persone e a cose che ci danno sicurezza.
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione di difendere come libertà quello che è solo lo spazio per scelte che ci sono più facili e che rischiano di essere arbitrarie.
La vera libertà significa responsabilità e, più precisamente, responsabilità a vivere una condivisione -cordiale e concreta- delle scelte e dei cammini pastorali proposti dal Vescovo e dai suoi collaboratoti all’intera Diocesi, come pure della preghiera e talvolta della mensa.
La vera libertà, da amare e da vivere, trova allora la sua radice e il suo frutto in quella “spiritualità della comunione” (cfr Novo millennio ineunte, n. 43) che è forza di edificazione della Chiesa e preziosa testimonianza offerta al mondo.
Siamo, dunque, invitati a vigilare. Ma la vigilanza non è un atteggiamento negativo, preoccupato principalmente o solo di evitare possibili tentazioni. Vigilare è “avere cura” di ciò che si è, perché il “mistero” di ciascuno possa manifestarsi e compiersi.
Vigilare è, dunque, una delle condizioni indispensabili per poter vivere uno stile di ministero “sinfonico”, capace veramente di esprimere la partecipazione alla carità pastorale del presbiterio.
Di questo stile abbiamo oggi un bisogno rinnovato e particolare. In realtà, la comune coscienza di appartenere all’unica opera del Signore e all’unica missione da lui ricevuta farà sì che la carità pastorale, per essere autentico cammino personale di santità, si lasci plasmare da un ministero pastorale comune e condiviso, favorendo così la premurosa ricerca dei modi pratici con cui il Vangelo può raggiungere ogni persona ed edificare l’intera comunità. Infatti, la convergenza delle scelte maturate insieme e la fatica serena del lavoro comune sono la forma più alta di quella comunione pastorale, che fa dire a Paolo: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor 3, 6).
Per descrivere questa impostazione complessiva dell’azione pastorale si può parlare di “strategia per la missione”, togliendo ovviamente al termine il sapore di una mera organizzazione umana. Del resto è Gesù stesso che ci spinge in questa direzione, quando afferma: «Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro…» (Lc 14, 28-30).
Un fondamentale principio riguarda il rapporto tra la Chiesa e il territorio, proprio a partire e in riferimento alla missione di annunciare Gesù e il suo Vangelo.
Infatti, la missione di una Chiesa locale è certamente quella di abitare come “straniera e pellegrina” il luogo in cui vive (cfr 1 Pt 2, 11), ma con quel preciso modo di ascoltare, parlare e agire che ripropone lo stile di vita di Gesù, prendendosi cura delle folle perché non siano come pecore senza pastore (cfr. Mt 9, 36). La comunità cristiana, dunque, ha il dovere di mettersi in ascolto della voce dello Spirito che -col variare dei tempi, delle condizioni di vita e delle risorse e forze a disposizione- risuona anche attraverso le specifiche e concrete caratteristiche del territorio con cui è compenetrata: si potranno così definire le modalità più adatte della presenza e azione missionaria di ogni comunità locale.
E tutto ciò lo dobbiamo fare con quella saggia e coraggiosa duttilità che ci deve condurre a individuare le forme concretamente più adatte, di situazione in situazione, per far crescere sempre più una vera e propria “pastorale d’insieme”.
È sempre la stessa duttilità a chiederci di individuare e mettere in atto quelle forme diversificate di “comunione pastorale” che, di caso in caso, meglio corrispondono alle necessità locali, sempre considerate anche in prospettiva futura.
Tra queste forme, ce n’è una -da avviare con oculatezza, ma anche con fiducia e con audacia evangeliche- che si presenta come particolarmente significativa e promettente -quasi esemplare per le altre- perché intende realizzare in modo più pieno e intenso quella “pastorale d’insieme” che costituisce l’orizzonte e lo stile irrinunciabile di tutta la nostra azione ecclesiale e che, quindi, deve abbracciare ogni articolazione territoriale della Diocesi. Si tratta della “costituzione delle unità pastorali” tra più parrocchie affidate a una cura pastorale unitaria e chiamate a vivere un cammino condiviso e coordinato di autentica comunione, attraverso la realizzazione di un concreto, preciso e forte progetto pastorale missionario.
Proprio perché sono costitutivi della comunità, i gesti propri dei ministeri della Parola, della liturgia e della carità non possono essere continuamente moltiplicati al solo scopo di rispondere ai numerosi e pur legittimi bisogni religiosi delle persone, ma vanno compiuti, nella quantità e nella qualità, in modo tale da essere davvero al servizio dell’edificazione di un’autentica comunità missionaria.
Per altro, il servizio pastorale alla vicenda spirituale delle persone dovrà normalmente prevedere feconde collaborazioni tra le parrocchie vicine, dentro un sapiente e forte spirito di “pastorale d’insieme” e secondo una “regìa” del ministero pastorale dei preti con il loro responsabile.
Così l’impostare l’azione pastorale tenendo presenti le “sfide” che ci vengono dal territorio sarà frutto di un paziente e insieme coraggioso “discernimento comunitario” sempre più condiviso e capace di coinvolgere tutto il popolo cristiano secondo le diverse vocazioni e condizioni di vita: i presbiteri anzitutto e, insieme con loro, i diaconi, le persone consacrate, i fedeli laici».
3.1.2. Che coso sono le Unità Pastorali?
“Unità Pastorale”: con quest’espressione si designa un insieme di parrocchie vicine che, sotto la guida di una Équipe presieduta da un Presbitero Moderatore, camminano pastoralmente in modo unitario al fine di dar vita ad una comunità missionaria capace di essere immagine viva e trasparente della comunione e missione Trinitaria.
«Un insieme di parrocchie vicine»: l’Unità Pastorale non è una superparrocchia e non comporta la soppressione di parrocchie che restano tutte in vita unitamente ai loro due Consigli (Pastorale e per gli Affari Economici). Sì, ogni parrocchia conserva la propria identità giuridica e amministrativa, ma costruisce quella pastorale operando con le altre parrocchie vicine.
«che sotto la guida di un’Équipe presieduta da un Presbitero Moderatore»: l’Équipe di Unità Pastorale, costituita da un numero non troppo ampio di persone coordina ed orienta, secondo gli indirizzi contenuti nel piano pastorale diocesano, la pastorale dell’Unità; individua quali esperienze ecclesiali vanno conservate in ogni comunità parrocchiale e quali vanno elaborate e realizzate insieme nell’Unità Pastorale. Il Presbitero Moderatore, che è nominato ad tempus (5 anni) dal Vescovo e non è un superparroco, convoca e presiede l’Équipe, nomina i suoi membri e cura l’attuazione delle sue decisioni che hanno carattere vincolante per i Consigli Pastorali delle Parrocchie che fanno parte dell’Unità.
«camminano pastoralmente in modo unitario al fine di dar vita ad una comunità missionaria capace di essere immagine viva e trasparente della comunione e missione Trinitaria»: siamo in un momento storico ed ecclesiale in cui le comunità parrocchiali sono chiamate a costruire ora, e con le risorse (persone e strutture) attualmente a disposizione, la Chiesa del futuro. Si tratta di uscire dai fortini della pastorale individualista e della visione della parrocchia autosufficiente, non per fare qualche aggiustamento finalizzato alla sopravvivenza, ma per mettere in atto una vera e propria riforma della parrocchia tradizionale nell’ottica della comunione e della missione: insieme per annunciare e testimoniare efficacemente Cristo Gesù, unica speranza del mondo. Sul rapporto comunione–missione risultano particolarmente illuminanti le parole del Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II: «La comunione con Gesù, dalla quale deriva la comunione dei cristiani tra loro, è condizione assolutamente indispensabile per portare frutto: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 5). E la comunione con gli altri è il frutto più bello che i tralci possono dare: essa, infatti, è dono di Cristo e del suo Spirito. Ora la comunione genera comunione, e si configura essenzialmente come comunione missionaria. Gesù, infatti, dice ai suoi discepoli: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15, 16). La comunione e la missione sono profondamente congiunte tra loro, si compenetrano e si implicano mutuamente, al punto che la comunione rappresenta la sorgente e insieme il frutto della missione: la comunione è missionaria e la missione è per la comunione» (Es. Ap. Christifideles laici, 32).
In questo contesto si colloca la imprescindibile necessità di formare fedeli laici coelaboratori e non solo collaboratori nella vita delle singole parrocchie dell’Unità Pastorale. A loro, infatti, spetta il compito ecclesiale di dare continuità alla vita e all’originalità della propria comunità, sempre, ma specialmente qualora essa non abbia più il parroco residente.
3.1.3. Unità Pastorali: il punto della situazione
Credo utile riportare la relazione presentata il 27 giugno u.s. ai Consigli Pastorale e Presbiterale da don Giampio Devasini, Vicario Episcopale per la Pastorale:
«L’Intrumentum laboris “Per avviare il cammino verso la costituzione delle Unità Pastorali” elaborato da mons. vescovo è stato trasmesso ai membri dell’Équipe per le UP istituita il 25 gennaio c.a., ai diaconi permanenti, alle assistenti pastorali, ai presbiteri ordinati negli ultimi 15 anni ed incontratisi a Bose il 16 aprile. Non solo. In apposite riunioni, i vicari foranei l’hanno portato a conoscenza dei presbiteri del loro Vicariato.
L’Équipe si è già riunita, pressoché al gran completo, tre volte (9 marzo, 20 aprile e 4 giugno). In occasione della seconda riunione, i vicari foranei di Casale, Cerrina, Moncalvo, Vignale e San Salvatore hanno presentato un abbozzo scritto di articolazione dei loro Vicariati in UP mentre altri vicari foranei (Frassineto, Montiglio, Oltrepo e Brusasco) hanno, sempre per iscritto, sostenuto l’utilità di configurare in UP l’intero loro Vicariato. In occasione della terza riunione (4 giugno), tutti i vicari foranei nonchè altri membri dell’Équipe hanno offerto per iscritto le loro risposte ai seguenti quesiti: 1) Quali ambiti della pastorale lasciare alla Parrocchia e quali trasferire all’UP?; 2) Quale valore attribuire alle decisioni dell’Équipe di UP? Valore vincolante?; 3) Quali criteri seguire per l’individuazione del Presbitero Moderatore?; 4) Chi inserire nell’Équipe di UP?; 5) Cosa fare per dare un’adeguata formazione ai laici e così metterli in condizione di divenire veramente coelaboratori, veramente corresponsabili?
Diversi presbiteri ed alcune assistenti pastorali hanno fatto pervenire le loro osservazioni scritte.
Il 25 marzo, giornata sacerdotale, don Giovanni Villata, dell’Arcidiocesi di Torino, ha tenuto un’interessante riflessione sulle UP.
Sul secondo numero di quest’anno della Rivista Diocesana Casalese è stata pubblicata una sintesi dell’Instrumentum laboris. Tale sintesi è stata inviata ai membri dei 2 Consigli -Presbiterale e Pastorale Diocesano- in vista dell’odierna discussione. A detti membri sono stati sottoposti anche i quesiti poc’anzi enunciati con l’aggiunta del seguente: “Pensi che l’articolazione o la trasformazione del tuo vicariato in Unità Pastorale possa favorire una pastorale meglio capace di rispondere alle numerose e complesse sfide della società contemporanea?”.
In occasione della Messa del Crisma (9 aprile) è stato diffuso un sussidio da distribuire ai fedeli e so che alcuni presbiteri già lo hanno fatto.
A partire dall’autunno del corrente anno Mons. vescovo ed il Vicario episcopale per la pastorale andranno nei Vicariati e per illustrare progetto e abbozzo di articolazione in UP e per raccogliere le relative osservazioni: le riunioni, adeguatamente preparate attraverso una capillare informazione, dovranno essere aperte a tutti.
Che io sappia, fin’ora nessuno, né verbalmente né per iscritto, si è dichiarato contrario alla prospettiva delle UP. Non pochi hanno però avanzato dubbi, perplessità, riserve. Sei le ragioni fondamentali addotte:
1) La fatica a comprendere l’utilità di articolare i Vicariati in UP con la conseguente domanda: non sarebbe meglio impegnarsi a realizzare a livello di Vicariato- eventualmente ritoccato nei confini- le dinamiche proprie dell’UP e così farlo finalmente funzionare anziché spendere tempo ed energie per costituire una realtà -l’UP- che rischia di essere semplicemente un Vicariato ridimensionato ed avente gli stessi problemi degli attuali Vicariati? E ancora: lasciare in piedi la struttura vicariale laddove il Vicariato si articolerà in UP è cosa buona oppure si avrebbe una moltiplicazione delle figure istituzionali che finirebbe per appesantire l’azione pastorale?
2) Il campanilismo, a volte veramente esasperato, che contraddistingue non poche delle nostre comunità parrocchiali, campanilismo che ha radici antiche e che spesso è stato alimentato, per motivi economici, da non pochi presbiteri.
3) La difficoltà di molti presbiteri a collaborare tra di loro. Più puntualmente e se ho capito bene: non fa problema la collaborazione che si esaurisce nella richiesta di aiuto per la celebrazione di Messe o del sacramento della riconciliazione e nello svolgimento di periodiche e a volte poco produttive riunioni. A fare problema è la collaborazione intesa come coelaborazione di una pastorale unitaria nei vari settori della vita ecclesiale. Questo tipo di collaborazione, a cui -parlo di noi presbiteri- non siamo stati educati nè siamo abituati, ci fa paura perchè importa il mettersi in discussione, perché importa l’abbandonare protagonismi ed autoreferenzialità, perché importa un dialogo possibile solo se ci si libera da pretese veritative su persone, programmi e progetti, perché importa il superamento della diffidenza e del timore del confronto, perché importa uno sguardo di misericordia su se stessi e sui propri fratelli nel presbiterato, perché importa rimboccarsi le maniche in misura maggiore ed in termini qualitativamente diversi rispetto a quanto alcuni di noi, e parlo innanzitutto per me, abitualmente fanno.
4) La fatica di alcuni presbiteri ad accettare laici che non si limitino ad occuparsi delle strutture e a fare da sacrestani ma che, forti delle loro esperienze esistenziali, si dispongano a concorrere nell’elaborazione ed attuazione di cammini pastorali capaci di rispondere alle numerose e complesse sfide della società contemporanea: il contesto secolarizzato e la rottura della comunicazione fra le generazioni che ha reso problematica la traditio fidei, la frammentazione che disorienta e rende difficile il consenso intorno ai valori.
5) La preoccupazione di alcuni presbiteri di essere non dico costretti ma caldamente invitati a spostarsi di Parrocchia.
6) La difficoltà di individuare, soprattutto al di fuori dei soliti noti, persone disposte ad affrontare l’impegno di corsi di formazione per operatori pastorali, condizione fondamentale per non continuare ad essere meri esecutori e divenire invece veri e propri coelaboratori o financo referenti pastorali laddove non c’è il presbitero residente (come ben sapete, nella nostra Diocesi esiste ormai da molti anni la figura dell’assistente pastorale, geniale intuizione del vescovo Carlo Cavalla).
Comunione per la missione, missione per la comunione: è questa l’ecclesiologia voluta dal Vaticano II, è questa l’ecclesiologia che ci aiuta a crescere come uomini, come cristiani, laici o presbiteri. Questo spiega perché il nostro Vescovo ama ripetere che se anche non ci fosse scarsità di clero egli non desisterebbe dal cercare di realizzarla. Ecco, è di questa ecclesiologia che le UP intendono essere strumento, uno strumento sempre da verificare per correggere ciò che, cammin facendo, si rivelerà errato o quanto meno inadeguato e comunque tenendo sempre fermo un principio più volte ribadito sempre dal nostro vescovo: l’articolazione degli attuali Vicariati in UP avverrà sola là dove detta articolazione risulterà utile per una più efficace azione pastorale e cioè a dire per un’azione pastorale capace di accompagnare ogni persona in tutti gli ambiti della sua vita e non solo nei momenti del nascere e del morire. Se, vincendo le molteplici paure che ci portiamo dentro, ci avventureremo con serenità lungo questa strada che oggi lo Spirito suggerisce alla Chiesa, scopriremo, forse con nostra stessa meraviglia, che a volte i sogni possono diventare realtà. Domando e chiudo: ma noi sogniamo ancora? Spero di sì, lo spero per voi ma innanzitutto lo spero per me».
I due punti precedenti descrivono un poco l’impegno della nostra Diocesi “in cammino” per essere sempre più Chiesa comunione e Chiesa missionaria. Sempre in questa prospettiva intendo riprendere ed incrementare la «Consulta diocesana delle aggregazioni laicali».
La Consulta non ha un compito immediatamente organizzativo ma è fatto comunionale con lo scopo di facilitare il cammino insieme delle aggregazioni laicali in ascolto ed in proposta al Vescovo ed in sintonia con il Piano pastorale diocesano. Questo scopo viene perseguito attraverso la conoscenza, il coordinamento, la collaborazione e la coelaborazione. La Consulta offre alle Aggregazioni laicali una triplice finalità :
- condividere il carisma della propria associazione
- far conoscere al proprio interno il programma pastorale diocesano
- partecipare attivamente all'attuazione del programma diocesano.
3.2. L’Iniziazione cristiana: un impegno fondamentale per una Chiesa che vuole “educare”
Ci limitiamo, per ora, a ricordare tutte le idee e le proposte che in questi ultimi anni sono state elaborate soprattutto dalla Conferenza Episcopale Italiana.
3.2.1. La difficile situazione della catechesi dell’iniziazione cristiana dei ragazzi
Da alcuni anni catechisti e parroci si trovano in difficoltà, perché costatano ogni giorno che il modo di fare catechesi nelle parrocchie con i fanciulli e i ragazzi, ma anche i corsi per adulti, non riescono più a dare risultati significativi: i ragazzi se ne vanno dopo la Cresima, i genitori non partecipano, ci sono problemi di disciplina, di coinvolgimento, di orari, ecc. Soprattutto la vita cristiana nelle famiglie si affievolisce sempre più, riducendo le parrocchie a luoghi i cui si cercano servizi religiosi generici, chiesti per abitudine o per motivi estranei alla fede cristiana.
E’ un problema di catechisti? E’ un problema di metodologia? E’ un problema d’inefficacia della nostra pastorale? Forse, come si afferma negli Orientamenti pastorali della CEI per il nuovo millennio “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”: è necessaria una «conversione pastorale»:
«La comunità cristiana dev’essere sempre pronta a offrire itinerari d’iniziazione e di catecumenato vero e proprio. Nuovi percorsi sono richiesti, infatti, dalla presenza non più rara di adulti che chiedono il battesimo, di “cristiani della soglia” a cui occorre offrire particolare attenzione, di persone che hanno bisogno di cammini per “ricominciare”… Al centro di tale rinnovamento va collocata la scelta di configurare la pastorale secondo il modello dell’iniziazione cristiana, che -intessendo tra loro testimonianza e annuncio, itinerario catecumenale, sostegno permanente della fede mediante la catechesi, vita sacramentale, mistagogia e testimonianza della carità- permette di dare unità alla vita della comunità e di aprirsi alle diverse situazioni spirituali dei non credenti, degli indifferenti, di quanti si accostano o si riaccostano al Vangelo, di coloro che cercano alimento per il loro impegno cristiano» (n.59).
Il discorso è ripreso dalla Nota della CEI (2004) Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia al n.7:
«Un ripensamento s’impone, se si vuole che le nostre parrocchie mantengano la capacità di offrire a tutti la possibilità di accedere alla fede… Per questo abbiamo pubblicato tre note pastorali sull’iniziazione cristiana, così da introdurre una più sicura prassi per l’iniziazione cristiana degli adulti, per quella dei fanciulli in età scolare e per il completamento dell’iniziazione e la ripresa della vita cristiana di giovani e adulti già battezzati. Qui richiamiamo alcuni obiettivi importanti…
Anzitutto riguardo all’iniziazione cristiana dei fanciulli. Si è finora cercato di “iniziare ai sacramenti”: è un obiettivo del progetto catechistico “per la vita cristiana”, cui vanno riconosciuti indubbi meriti e che esige ulteriore impegno per una piena attuazione. Dobbiamo però anche “iniziare attraverso i sacramenti”. […] In prospettiva catecumenale, il cammino va scandito in tappe, con percorsi differenziati e integrati. Occorre promuovere la maturazione di fede e soprattutto bisogna integrare tra loro le varie dimensioni della vita cristiana: conoscere, celebrare e vivere la fede, ricordando che costruisce la sua casa sulla roccia solo chi “ascolta” la parola di Gesù e la “mette in pratica” (cfr Mt 7,24-27). La fede deve essere nutrita di parola di Dio e resa capace di mostrarne la credibilità per l’uomo d’oggi».
La Conferenza Episcopale italiana richiama, dunque, l’urgenza di riorganizzare la prassi catechistica dell’iniziazione cristiana, restituendole la dignità di vera “iniziazione cristiana”, cioè di un cammino per diventare cristiani ed entrare nella comunità. Mentre spesso noi facciamo proposte di “preparazione ai sacramenti” a carattere scolastico, sia per quanto riguarda i tempi sia per quanto riguarda la forma e senza coinvolgere le famiglie.
3.2.2. Le nuove proposte della Conferenza Episcopale Italiana
Come dicono i Vescovi nel documento citato, per sostenere la necessaria «conversione pastorale», il Consiglio Permanente della CEI ha proposto dal 1997 al 2003 alcune linee concrete sotto il titolo L’iniziazione cristiana. Sono tre documenti che offrono orientamenti per il catecumenato degli adulti (gli adulti che chiedono il Battesimo); per il catecumenato dei ragazzi (i ragazzi da battezzare che sono inseriti nel cammino catechistico), per il risveglio della fede nei giovani e negli adulti (verso la Cresima, fidanzati, genitori che chiedono il Battesimo del figlio,ecc.).
I tre documenti non propongono soltanto vaghe esortazioni, ma itinerari concreti da sperimentare nelle Diocesi e nelle parrocchie: per gli adulti che chiedono il Battesimo ormai molte diocesi hanno un “Servizio diocesano”; per i ragazzi è stata proposta una Guida per l’itinerario catecumenale (Elledici), elaborata dell’Ufficio catechistico nazionale; per il risveglio della fede è stato proposto un itinerario annuale e l’istituzione nelle parrocchie di gruppi di ricerca nella fede. La riflessione sull’Iniziazione Cristiana promossa dalle Note ha portato ad un “ripensamento” anche della pastorale di Iniziazione Cristiana dei ragazzi nella nostra prassi ordinaria, con due interventi significativi: il Seminario della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’annuncio e la catechesi, e le due Assemblee della Conferenza Episcopale Italiana del 2003 e 2004.
Fermandoci, appunto, ai ragazzi dell’iniziazione cristiana, la proposta è di riorganizzare totalmente la pratica attuale della catechesi, rendendola un cammino vero e proprio per “diventare cristiani”, a cui la famiglia accetta liberamente di partecipare con i propri figli, scandito da riti e celebrazioni, fatto anche di esperienze di vita cristiana (gesti di solidarietà, giornate comunitarie, ecc.), partecipazione progressiva alla vita della parrocchia, celebrazione unitaria dei sacramenti del Battesimo Cresima ed Eucaristia.
Occorre riattivare la trasmissione della fede nelle famiglie e sostenerla con gli incontri comunitari: la grande sfida della catechesi di oggi è imparare a “fare i cristiani”, piccoli o adulti che siano. Questo compito esige un rinnovamento totale della nostra prassi catechistica: ma affonda le sue radici già nel documento conciliare Ad Gentes n.13-14: là dove il Concilio afferma che «l’iniziazione cristiana è compito di tutta la comunità cristiana»; e nel Documento di Base (1970), quando si dice che lo scopo della catechesi è «creare la mentalità di fede, cioè educare a pensare, a vivere, ad amare come Gesù» (n.38). Già allora si sottolineava l’importanza dell’inserimento nella parrocchia (n.200), affermando anche che i destinatari propri della catechesi sono gli adulti (n.124). E nella lettera di riconsegna (1988) al n. 7 si ricorda che «punto di riferimento per gli itinerari di catechesi di tipo catecumenale è il Rito per l’Iniziazione Cristiana degli adulti»; inoltre, propone itinerari differenziati: per l’iniziazione cristiana, per la crescita e maturazione della fede; per la formazione permanente e sistematica…Tutte cose che sono state riprese anche nel Direttorio Generale per la catechesi (1997): nei nn. 60-68 si definisce la catechesi dell’iniziazione cristiana come esperienza globale in cui coinvolgere ragazzi e famiglie; nei nn. 88-91 si dichiara apertamente che il modello a cui riferirsi è il «catecumenato battesimale».
La novità di questi ultimi anni sta semplicemente nella proposta concreta di un itinerario percorribile per attuare queste intuizioni.
La prospettiva catecumenale -proposta così ampiamente e così autorevolmente- non è un’alternativa al progetto catechistico italiano o un rinnegamento di esso: anzi, se mai ne è uno sviluppo puntuale. Infatti, i criteri su cui si fonda il rinnovamento proposto, nascono proprio dal Documento di Base, dal Direttorio catechistico generale e li attuano in maniera concreta e articolata. Occorre poi sfatare l’idea che la riscoperta dello stile catecumenale sia una semplice operazione archeologica per ripristinare l’antico catecumenato: certo, i termini usati a volte possono apparire superati… ma più che i termini o la tradizione si tratta di dare una risposta alla situazione attuale per molti versi paragonabile alla situazione di allora. Ci troviamo oggi, infatti, in un mondo pagano (più ancora che ateo), in cui deve risuonare nuovamente l’annuncio di Gesù e la coerenza tra l’annuncio e la vita quotidiana, basata su criteri evangelici. Né il rinnovamento va pensato come una pura preoccupazione di ridare completezza ai contenuti a scapito dell’attenzione alle persone: anzi, è proprio l’accompagnamento alle persone, nella loro situazione concreta di lontananza da Cristo e dalla Chiesa, a scandire le tappe del cammino. I catechismi sono uno strumento indispensabile per l’iniziazione cristiana, senza essere la risoluzione definitiva dei problemi della nostra catechesi. Non basta fare un bel testo di catechismo -come quelli che abbiamo in Italia- per iniziare alla fede (RdC n.200).
Ritengo necessario ed urgente riprendere, con pazienza e con profonda passione pastorale, quanto sopra esposto così da giungere a scelte concrete e condivise.
3.3. La nostra Chiesa è chiamata ad esprimere collaboratori corresponsabili
Una conversione pastorale qual è quella verso cui intende avviarsi la nostra Diocesi “in cammino”, necessita di una collaborazione responsabile ed integrata tra sacerdoti – diaconi – laici. Non ci sarà alcun futuro per i nostri progetti pastorali senza un patto di comunione missionaria con i laici.
Bisogna, allora, fare in modo che i laici diventino nelle nostre comunità non soltanto dei generosi collaboratori, ma dei veri corresponsabili. E’ questo un elemento fondamentale della “conversione pastorale”. L’importanza del sacerdozio battesimale dei laici non deve essere soltanto dichiarata. La stima e l’appello all’impegno dei battezzati non può soltanto essere ridotto a princìpi.
Per questo dobbiamo accettare, anzi scegliere con tutta la forza del nostro zelo pastorale la via della formazione seria ed esigente.
Anche per questo argomento ci limitiamo, per ora, a ricordare i progetti offerti alla Chiesa da parte del magistero.
Il magistero della Chiesa insiste sempre di più nel ricordare che il popolo di Dio non è tale nella sua interezza se la condizione di cristiani laici non è vissuta come fatto costitutivo della Chiesa stessa. La pastorale, di conseguenza, non è concepibile secondo un’impostazione che non faccia emergere il carisma della laicità cristiana come energia originale, protagonista, insostituibile.
3.3.1. Superare una “ecclesialità incompiuta”
Soprattutto dalla Costituzione conciliare Lumen Gentium (LG) sulla natura della Chiesa e dalla Esortazione apostolica Christifideles laici (ChL), di Giovanni Paolo II sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, possiamo cogliere alcuni punti basilari del magistero che risultano di assoluta attualità sia per la riflessione teologica, sia per l’orientamento formativo e pastorale in tema di laicato cristiano.
a) tutti i cristiani sono ugualmente chiamati alla missione della Chiesa, e un nuovo stile di collaborazione tra sacerdoti, diaconi, religiosi e fedeli laici -di cui tutti riconoscono la necessità- potrà derivare solo da una rinnovata coscienza sulla realtà del sacerdozio comune che sta alla base della condizione di battezzati (cfr 1Pt 2,4-5.9; LG nn. 10 e 15), per il superamento di una ecclesialità altrimenti incompiuta.
b) «I ministeri e i servizi ecclesiali affidati o da affidarsi ai fedeli laici» (ChL 2) non devono risultare un ripiego di emergenza, ma il riconoscimento di una funzione necessaria ed equilibratrice, originale dentro il popolo di Dio.«Cercare il Regno trattando le cose temporali e ordinandole secondo il Signore» (LG 31); con la consapevolezza «non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa» (ChL 9).
c) Distinti, quindi, ma non separati da presbiteri e diaconi (il cui ministero è ordinato), da religiosi e religiose (la cui consacrazione ha specifico ruolo profetico), i laici esprimono l’indole secolare «loro propria e peculiare» (LG 31) considerando «il mondo l’ambito e il mezzo della loro vocazione cristiana» (ChL 15). «Sono da Dio chiamati a contribuire quasi dall’interno, a modo di fermento, alla santificazione del mondo» (LG 31).
d) Per questo, tutti i fedeli battezzati, senza distinzione, sono chiamati «alla santità e alla perfezione del proprio stato» (LG 42). I laici, in particolare, devono evitare una duplice tentazione: quella dell’eccesso di coinvolgimento in compiti ecclesiali fino al disimpegno dalle specifiche responsabilità familiari e professionali; oppure quella di «legittimare l’indebita separazione tra la fede e la vita» (ChL 2).
3.3.2. Il magistero dei Vescovi italiani
Nella nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia pubblicata il 30 maggio 2004, i Vescovi Italiani mettendo al centro della riflessione il tema della parrocchia ribadiscono con forza ed incisività il ruolo del laicato nella vita della Chiesa con particolare riferimento al suo rapporto con i ministeri ordinati nonché la responsabilità della cura e della formazione di un laicato adulto e motivato al servizio.
a) Il cammino missionario della parrocchia è affidato alla responsabilità di tutta la comunità parrocchiale. La parrocchia non è solo una presenza della Chiesa in un territorio, ma «una determinata comunità di fedeli», comunione di persone che si riconoscono nella memoria cristiana vissuta e trasmessa in quel luogo. Singolarmente e insieme, ciascuno è lì responsabile del Vangelo e della sua comunicazione, secondo il dono che Dio gli ha dato e il servizio che la Chiesa gli ha affidato.
b) In questi decenni i sacerdoti hanno visto moltiplicarsi i loro impegni. Ciò è spesso avvenuto senza che venisse ripensato in modo globale e coerente il loro servizio al Vangelo. Spesso perciò sono affaticati da una molteplicità di impegni che tolgono loro la pacatezza necessaria per svolgere con frutto il proprio ministero e per curare convenientemente la propria vita spirituale. Il rischio di un attivismo esasperato non può essere trascurato, anche in considerazione della diminuzione delle vocazioni sacerdotali, realtà con cui tutte le diocesi devono fare i conti.
c) I sacerdoti dovranno vedersi sempre più all’interno di un presbiterio e dentro una sinfonia di ministeri e di iniziative: nella parrocchia, nella diocesi e nelle sue articolazioni. Il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione; e perciò avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale. Il suo specifico ministero di guida della comunità parrocchiale va esercitato tessendo la trama delle missioni e dei servizi: non è possibile essere parrocchia missionaria da soli.
d) Ma la missionarietà della parrocchia esige che gli spazi della pastorale si aprano anche a nuove figure ministeriali, riconoscendo compiti di responsabilità a tutte le forme di vita cristiana e a tutti i carismi che lo Spirito suscita. Figure nuove al servizio della parrocchia missionaria stanno nascendo e dovranno diffondersi: nell’ambito catechistico e in quello liturgico, nell’animazione caritativa e nella pastorale familiare, ecc. Non si tratta di fare supplenza ai ministeri ordinati, ma di promuovere la molteplicità dei doni che il Signore offre e la varietà dei servizi di cui la Chiesa ha bisogno. Una comunità con pochi ministeri non può essere attenta a situazioni tanto diverse e complesse. Solo con un laicato corresponsabile, la comunità può diventare effettivamente missionaria.
e) la cura e la formazione del laicato rappresentano un impegno urgente da attuare nell’ottica della “pastorale integrata” e in una duplice direzione. La prima richiede una formazione ampia e disinteressata del laicato, non indirizzata subito a un incarico pastorale e/o missionario ma alla crescita della qualità testimoniale della fede cristiana. La seconda esige di promuovere su questo sfondo anche una capacità di servizio ecclesiale, sia in forma occasionale e diffusa sia con impegno a tempo parziale o pieno. Bisogna peraltro dire con franchezza che non c’è ministero nella Chiesa che non debba alimentarsi a un’intensa corrente di spiritualità e di oblatività. La Chiesa non ha bisogno di professionisti della pastorale, ma di una vasta area di gratuità nella quale chi svolge un servizio lo accompagna con uno stile di vita evangelico. La formazione dovrà coprire tutte le dimensioni necessarie per l’esercizio del ministero – spirituali, intellettuali, pastorali –, perché cresca in tutti una vera coscienza ecclesiale.
L’intuito pastorale del vescovo Mons. Carlo Cavalla, seppe dare vita -nel solco del magistero conciliare- alla realtà delle Assistenti Pastorali; esattamente in questa linea vogliamo incamminarci; vogliamo lanciare un appello a quanti -uomini e donne- intendono impegnarsi per una formazione che permetta loro di vivere la chiamata battesimale a servire l’edificazione del Regno di Dio, nelle diverse attività pastorali della Chiesa (cfr XXVII Sinodo Diocesano Casalese, Orientamenti e Norme, 150).
Conclusione
Carissimi,
con questo messaggio non intendo proporre una trattazione completa circa il tema dell’educazione e nemmeno offrire ricette. Più semplicemente desidero aiutare a riflettere, così che l’educazione diventi la passione centrale delle nostre comunità cristiane.
Non si tratta di metterci a ricercare “colpevoli” (la società, la famiglia, la scuola…); si tratta piuttosto di ritrovare fiducia e coraggio; si tratta di costruire -in positivo- comunità vere che si assumono coscientemente e responsabilmente quel servizio di vero amore che consiste nel “trasmettere la fede”.
A Maria -modello efficace per ogni impegno educativo- che da Crea veglia sulla nostra Chiesa, al patrono S. Evasio, testimone fino all’effusione del sangue per trasmettere la fede, affidiamo il nostro cammino pastorale.
Casale Monferrato, 7 settembre 2009 – 1° Anniversario dell’inizio del mio ministero pastorale
+ Alceste Catella, vescovo
[1] Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. Traccia di riflessione in preparazione al Convegno Ecclesiale di Verona 16-20 ottobre 2006, n. 10.
[2] G. Angelini, Educare si deve ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002, 227.
[3] G. Angelini, Educare si deve ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002, 218.
[4] C. M. Martini, Parola alla Chiesa. Parola alla Città, ITL-EDB, Milano-Bologna 2002, 465 ss. «Si vuole anzitutto, riaffermare la forza educativa dell’esperienza: gli atti educano; le parole, che pure occorrono, non bastano e spesso illudono; il pagare di persona, in termini di tempi, di fatica, di disponibilità e di ricerca fa assimilare i valori ed è un grande aiuto a capire le cose in profondità. Il significato dell’”educare attraverso” è però anche un altro, (…): le vie di Dio sono imperscrutabili; il cammino educativo non è da affrontare semplicemente come qualcosa di deducibile; esso viene esaurientemente espresso da un approccio teologico, perché l’educazione è via ed azione di Dio». (p. 467).
[5] L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, 96-97.
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